Ove son or le meraviglie tue O regno di Sicilia? Ove son quelle Chiare memorie, onde potevi altrui Mostrar per segni le grandezze antiche?
(Dal Fazello - Storia di Sicilia, deca I,lib. VI,cap.I)
Castrum Vetus o Castellaccio
I ruderi del castello, risalente al XII secolo, si impostano su di una rupe dalla piatta sommità, poco distante dal centro abitato di Lentini.
Risalgono ad epoca normanna le prime interessanti informazioni relative tanto all'insediamento, quanto al castello medievale di Lentini. La testimonianza più importante è quella di Ugo Falcando, il quale ricorda la devastazione dell'abitato in occasione del terremoto del 1169. Alla metà del XII secolo Edrisi scrive della città come ricca di mercati, di corsi d'acqua e avente un fertile territorio circostante (Amari, I, p. 72); inoltre definisce l'abitato "hisn", forte rocca. L'aggettivo starebbe ad indicare che già in epoca normanna esisteva una fortezza a salvaguardia del paese, il quale a sua volta possedeva certamente una cinta muraria. Con grande probabilità la fortezza sorgeva sul colle "Castellaccio", ove oggi si possono osservare i resti di un esteso complesso edilizio, ristrutturato durante la prima metà del XIII secolo d.C., secondo volontà di Federico II, il quale lascia ampia testimonianza dell'operato in una celebre epistola, indirizzata a Riccardo da Lentini. Lo scritto è breve, ma esauriente nei contenuti: si rinnovano le mura del castello per mezzo di blocchi calcarei squadrati, "incisis cantonibus"; inoltre si edificano "tribus turribus", cioè tre torri, di cui una presumibilmente svolgente le funzioni di mastio.
Scomparsa la dominazione sveva in Sicilia, nel 1273 Carlo d'Angiò instituisce una commissione d'inchiesta riguardo allo stato dei castelli nell'isola. Il dominatore giunge a Lentini il 12 aprile del medesimo anno e in questa occasione si redige un documento ufficiale, che descrive le condizioni della fortezza, nonché evidenzia l'esistenza di alcune parti del complesso, non presenti nell'epistola di Federico II: soprattutto si ricorda la presenza di un piccolo edificio sacro all'interno del "Castellaccio". Allo stato attuale degli studi resti di una cappella potrebbero identificarsi con una struttura quadrangolare absidata esistente presso il lato settentrionale del castrum.
Alla lista dei castelli fa immediatamente seguito, nel maggio 1274, la composizione dello statuto dei castelli siciliani presso Barletta, rinnovato successivamente nell'agosto del 1281 presso Montefiascone. L'analisi dei due documenti evidenzia un rafforzamento della guarnigione, risultante più che raddoppiata, di stanza all'interno del castrum. Che gli angioini temessero una rivolta? Meno di un anno dopo, il 5 aprile 1282, scoppiano i Vespri Siciliani: Lentini si unisce alla ribellione; il governatore della città, l'angioino Papirio Comitini, si rifugia nel castellaccio, ove è presto raggiunto dalla furia del popolo. Alla fine del medesimo anno è Pietro d'Aragona a sostare presso Lentini per tre giorni.
Tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo, il castrum vetus giunge ad occupare un ruolo fondamentale per la sopravvivenza di alcune delle più illustri e nobili famiglie siciliane. Nel 1338 il "Castellaccio" sembra custodisca come prigionieri il conte Franceschello dei Ventimiglia, il conte di Collesano e Romualdo Rosso di Cefalù, affidati, per volontà di Pietro III, alla custodia di Ruggero Passaneto (Fazello, dec. 2, 1.9, cap. 4, tomo III, p. 84), il quale, accusato di essersi appropriato del tesoro dei Ventimiglia, si trincera dentro il castrum, a lungo assediato da Blasco Alagona, utilizzando una poderosa macchina da guerra, costruita da un certo Dermarco. L'anno successivo, nel 1339, re Pietro emette un diploma, al fine di concedere a Lentini l'estensione delle gabelle per riparare anche le mura della città e costruire baluardi nel castello (Pisano-Baudo, II, pp. 202-203).
Meno di 20 anni dopo la vicenda del Passaneto, Lentini con il suo castrum subisce un altro lungo periodo di guerra, che ha il suo inizio intorno al 1354. Questa volta i protagonisti sono Ludovico d'Aragona e membri della famiglia Chiaramonte. Nel 1359, Artale Alagona finalmente porta a compimento un assedio in grado di far capitolare Manfredi Chiaramonte, sebbene sia solo l'abitato a cadere nelle mani dell'Alagona, accadendo non altrettanto per il castrum vetus, all'interno del quale rimangono chiusi la moglie, i figli di Manfredi e un presidio, destinato a capitolare solo il 25 marzo del 1360, causa tradimento di alcuni soldati. La famiglia Chiaramonte, prigioniera, viene condotta a Catania.
Nel 1398 si redige un nuovo ordinamento amministrativo dei castelli siciliani; re Martino assegna alla custodia del "Castellaccio" di Lentini un castellano, un vicecastellano e 12 servienti. Nel 1414 il castrum vetus rimane evidentemente ancora in potere regio, se Bianca di Navarra, a seguito delle violenti rivolte sorte dopo la morte di re Martino, riesce a porre in efficiente difesa il castello, assegnando alla fortezza, ancora una volta, un castellano, un vice, un portiere, 12 servienti e un cappellano. Appena vent'anni dopo, nel 1434, Alfonso d'Aragona assegna il castello a Vincenzo Gargallo.
Nel 1542, dopo più di un secolo, Fazello, nella sua opera storica, ricorda l'avvenimento infausto che si abbatte su Lentini e sul suo territorio: un violento terremoto. Il resoconto è chiaro, il cataclisma rade al suolo il castellum novum e reca seri danni alla Regia di Tirone, cioè il Castellaccio. In seguito a ciò, alla metà del XVI secolo si edifica sul colle della "Meta" una nuova fortificazione. Un'altra testimonianza storica sullo stato di Lentini e delle sue fortificazioni intorno alla prima metà del XVI secolo è quella presente nella relazione del vicerè Don Fernando Gonzaga (1537/1546). L'autore, infatti, riconosce l'importanza strategica del sito ove sorge l'abitato, perché chiave d'accesso verso la piana di Catania e il conseguente comprensorio etneo. A tal scopo cerca dei fondi per fortificare il luogo, in una data certamente anteriore al terremoto del 1542, cataclisma dopo il quale l'impresa risulta inutile, causa abbandono dei luoghi, probabilmente ormai anche malsani (impaludamento del Biviere?), da parte degli abitanti.
Un particolare è bene sottolineare: Gonzaga si risolve «di volerne fortificare parte, et non tutta perché per essere in molti pezzi, et grande non se ne verrebbe mai à fine...». Per «molti pezzi» l'autore certamente intende le mura urbiche dell'abitato, il castrum vetus e, possibilmente, il castellum novum. Il progetto incompiuto non permette di capire a cosa erano effettivamente indirizzati quei venticinquemila scudi, stanziati per la ristrutturazione del complesso fortificato. Tuttavia pare che si riesca a restaurare il castrum vetus, poiché nel 1675 resiste all'assedio postovi dal francese Duca di Wivonne, il quale decide di astenersi dal tentativo di espugnare la fortezza. In questa occasione viene tratta in salvo una icona, un'antica tavola conosciuta come Madonna del Castello, opera d'arte dalla lunga tradizione storico-artistica.
Il 1693 è l'anno del gravissimo terremoto che rade al suolo Catania. Il cataclisma colpisce anche altre città, fra le quali Lentini. Il Castellaccio riporta altri serissimi danni, dai quali sembra non più riprendersi. Abbandonato del tutto, rimane in stato di rudere, esposto agli agenti disgregatrici della natura e dell'uomo.
Il Castellaccio di Lentini possiede la forma di una rupe calcarea dalla sommità piatta, posta al centro di un sistema fortificato che comprende a nord-ovest il colle Tirone e a sud-est il colle Lastrichello. Due profondi fossati dividono la fortezza dalle due alture. L'isolamento si accentua a nord e a sud, dove mura a strapiombo isolano l'intero complesso dalla Valle del Crocifisso (a settentrione) e dalla Valle di S. Mauro (a meridione). Il fronte meridionale del Castellaccio digrada verso la Valle S. Mauro con un andamento a scarpa. I tre rimanenti lati mostrano un maggiore intervento dell'opera umana. Il fronte settentrionale si getta a strapiombo verso la valle del Crocifisso, con una parete pesantemente scalpellata e coronata, sulla sommità, dall'addossamento di conci calcarei, formanti la base di un'opera muraria. L'angolo nord-ovest si distingue per la presenza di una evidente rientranza, probabilmente ricavata per una precisa ragione difensiva.
Si giunge così ai lati di oriente e occidente: questi due lati si distinguono grandemente per la presenza di due profonde fosse, tagliate nella rupe. La prima possiede una lunghezza di circa 70 metri e una profondità di 10/15 metri. Essa divide il Castellaccio dal colle Tirone. Il secondo fossato, che separa la fortezza dal Lastrichello, nella porzione nord misura circa 30 m. in lunghezza, mentre la porzione sud si allarga verso la valle S. Mauro a dismisura. Entrambi i fossati possiedono una ulteriore caratteristica, presentano due istmi, tagliati nella roccia e che un tempo dovevano rendere possibili le comunicazioni dall'interno della fortezza verso l'esterno e viceversa. L'istmo che congiunge al Tirone ha una lunghezza di m. 20 e una larghezza di m. 4 e presenta lungo la porzione mediana un taglio trasversale di m. 5,80, sul quale doveva innestarsi un ponte levatoio. L'istmo che collega al Lastrichello, possiede una lunghezza simile al primo, ma non offre alcun tipo di taglio trasversale.
Una cinta muraria probabilemente correva lungo i bordi del pianoro, formando un grossolano parallelepipedo, all'intero del quale insistevano gli ambienti militari. Di tale cinta è possibile osservare i resti lungo il lato meridionale, ove vi è la presenza di un muro composto da conci calcarei, distribuiti in sei assise superstiti e proseguente lungo il bordo del pianoro.
Ancora ai giorni nostri l'estremità orientale del muro si innesta, ad angolo retto, con un'altra opera muraria decisamente imponente, la quale è composta, all'esterno, da conci rettangolari ben squadrati, di grandezza decrescente man mano che procedono dalla base verso la zona terminale e allineati in venti assise. Nei filari inferiori i conci non superano i m. 1,60 in lunghezza e in altezza i cm. 45/55. La malta cementizia che li lega si presenta tenace e forma, insieme con i blocchi calcarei, una massa compatta, che quasi non si distingue dalla roccia sottostante.
Questa grande opera termina all'estremità est sull'ampio fossato, che divide il Castellaccio dal Lastrichello, presentando inoltre un angolo acuto smussato, inteso come punto di convergenza con un altro muraglione. Si tratta della cosiddetta "arx triangularis", ricordata dal Fazello e dal contemporaneo Claudio Arezzo. Quanto si conserva di questa singolare opera muraria è solo la porzione inferiore di una torre triangolare collassata a causa del violento terremoto del 1542. All'interno della torre è ancora possibile osservare quanto rimane di un ambiente rettangolare, rivestito di conci squadrati e tanto interrato, da rendere effettivamente impossibile calcolarne la profondità. Si possono solo osservare le tracce di una porta, larga circa m. 2.
L'opera di difesa meridionale era integrata da un ulteriore muraglione, del quale oggi sopravvive una consistente porzione. Si tratta, in sostanza, di un raddoppio di fortificazione, reso necessario dalla particolare conformazione del versante sud del Castellaccio, la cui scarpata non permette la realizzazione di tagli verticali della roccia, a differenza di quanto è stato possibile nei rimanenti tre lati. Il muraglione trova posto nel settore medio della suddetta scarpata e non è parallelo alla cinta muraria del castello, giacché piegando a sud-est, probabilmente doveva completare il suo percorso in prossimità della torre angolare. In epoca contemporanea sopravvive di questa ulteriore opera difensiva solo un tratto di dieci metri in lunghezza, possiede uno spessore di m. 2 ed è realizzato ad emplecton (doppio paramento con riempimento interno). La tecnica edilizia richiama altre analoghe opere murarie di castelli svevi; inoltre, sui conci non ancora del tutto corrosi dal tempo si possono osservare incisioni dei lapicidi, similmente al Castel di Maniace e al Castello Ursino.
Il fronte occidentale del Castellaccio si affaccia sul fossato del Tirone; quivi non esistono ulteriori opere di difesa, poiché l'intera rupe è stata intagliata, tanto da formare essa stessa un baluardo contro un ipotetico assalitore. La parete rocciosa qui raggiunge un'altezza di circa m. 20 e si distingue, inoltre, per l'ulteriore presenza di tre grandi tagli strombati, operati ad eguale distanza. Questi tagli hanno le loro bocche in corrispondenza della cortina muraria ovest (quasi del tutto scomparsa) e quivi possiedono una profondità e una larghezza di circa un metro. Le loro proporzioni aumentano man mano che procedono verso il basso, fino a formare grandiosi cunei, che donano alla parete un curioso effetto decorativo. Si tratta, presumibilmente, di ampie caditoie, utili agli assediati per lanciare massi o liquidi roventi contro possibili assedianti, tanto arditi da tentare l'ascesa alla fortezza da questo versante.
Sempre lungo il fronte occidentale, circa a 5 m. dal margine della rupe, si conservano le tracce di un altro grande muro, la cui lunghezza complessiva è di oltre m. 30, con una interruzione mediana, interpretabile come un ingresso. Lo spessore di questo muro raggiunge i m. 2,40, mancante però del rivestimento di conci calcarei squadrati, forse spoliati, insieme con il quale avrebbe presumibilmente raggiunto i m. 2,60, spessore canonico delle fabbriche sveve a carattere militare. Questa opera muraria potrebbe relazionarsi ad una delle tre torri, citate nella lettera a Riccardo da Lentini, quale ad esempio la torre ottagona, ricordata dall'abate V. Amico.
Il fronte settentrionale non si presenta egualmente conservato. Quivi, in più punti, la parete rocciosa ha subito frane, anche di notevole entità, che ne hanno pregiudicato l'altezza e il taglio verticale, che si preserva, come in precedenza è stato detto, solo nell'angolo nord-ovest. In tale punto si conservano tracce della cortina muraria, composta, anche in questo caso, da conci squadrati, allineati in compatte assise (sei in tutto), che riprendono la verticalità artificiale della parete rocciosa. Il medesimo muro, osservato dal fronte interno, si presenta caratterizzato da due feritoie sovrapposte e conservato per quattro assise di grossi blocchi squadrati, per un'altezza complessiva di m. 1,85. Solo in tempi recenti, sul limitare nord del Castellaccio è stata individuata una struttura semicircolare, interpretata come l'abside di un edificio sacro, presumibilmente la cappella citata nel documento angioino del 1273. Di essa si conservano solo poche assise a vista e necessiterebbe di un'azione di attento sterramento per comprendere meglio i lineamenti della struttura.
Pressappoco al centro del piccolo pianoro esiste l'ingresso per il sotterraneo del castello, solo in tempi alquanto recenti dissotterrato e restaurato. Il sotterraneo presenta una scala di accesso, coperta da volta a botte, innestata al centro del lato orientale , un orientamento nord-sud e misure di m. 16,72 per 5,58. Non è dato sapere se la stanza ipogea è stata ricavata dal taglio della roccia: il rivestimento in muratura, infatti, non consente di confermare o smentire tale ipotesi. I lati lunghi della struttura si dividono in cinque porzioni, ciascuna aventi una larghezza di m. 3, per la presenza di quattro semipilastri, solcanti la volta e svolgenti una funzione quasi del tutto decorativa. Non è, infatti, possibile interpretare tali semipilastri alla maniera di costoloni, poiché non possiedono una funzione architettonica di sostegno. Essi, inoltre, hanno subito di recente un intervento di restauro (chiaramente esteso a tutto il sotterraneo) che ha ricostruito il loro percorso fino al culmine della volta, poiché in precedenza essi si conservavano solo sino all'altezza del piedidritto.
Ancora, i semipilastri si impostano su di un banchinamento perimetrale, similmente a quanto si può osservare al Castel Maniace e alla Basilica del Murgo, e misurano, sino alla linea di imposa della volta, in altezza m. 2,87. Le pareti si compongono di nove assise di conci, legati da malta cementizia, ben squadrati e con misura massima di m. 0,45 per 0,70. Simile struttura presenta la volta, con leggera ogiva, costituita da conci squadrati della misura media di m. 0,30 per 0,65. La camera sotterranea presenta, inoltre, i resti di un efficace sistema di areazione, composto, per ciascuna delle cinque sezioni, da una lunga feritoia centrale strombata, più altre laterali di minori dimensioni, per un totale di 16 caditoie. Bisogna segnalare, anche in questo caso, la presenza di marchi dei lapicidi in quei conci della muratura del sotterraneo non ancora troppo corrosi. è possibile che questo ambiente ipogeo fosse collegato, attraverso camminamenti segreti, ad alcune grotte che si trovano alla base del Castellaccio: la più famosa fra tante è la "Caverna delle Palle", che si innesta all'interno della rupe per oltre 30 m., mantenendo una larghezza media di 3,40 m. All'estremità di questo ambulacro si dipartono altre diramazioni secondarie, le quali non paiono del tutto esplorate. Inoltre la copertura dell'antro principale offre la presenza di un buco occluso, che facilmente potrebbe condurre alla monumentale camera ipogea.
Infine rimane la problematica legata all'approvvigionamento idrico: esso è un difetto posto in evidenza anche da alcune fonti. Certamente all'interno del recinto fortificato dovevano esistere più cisterne, a servizio della popolazione del castello. Due invasi esistono tuttora, per quanto interrati, uno limitrofo al vano sotterraneo, l'altro prossimo al muro settentrionale. Pare, comunque, che le due cisterne siano poco profonde e insufficienti per l'intera fortezza. Doveva esservi qualche altro invaso, certamente più capiente; purtroppo lo sconvolgimento e l'interramento generale delle strutture non consente ulteriori ricerche, almeno per il momento.
Il parco archeologico è aperto:
Martedì: 9.00 - 12.00
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L'ingresso al parco archeologico è gratuito. L'apertura è a cura dei volontari dell'Associazione Ex-Duco lab di Lentini. Su richiesta è possibile compiere tour guidati del sito ad un costo di euro 3,00 a persona.