Ove son or le meraviglie tue O regno di Sicilia? Ove son quelle Chiare memorie, onde potevi altrui Mostrar per segni le grandezze antiche?
(Dal Fazello - Storia di Sicilia, deca I,lib. VI,cap.I)
Tempio dei SS. Pietro e Paolo
Si tratta del tempio dedicato ai S.S. Apostoli Pietro e Paolo, uno dei più importanti monumenti dell'arte siciliana sito nella frazione San Pietro di Casalvecchio Siculo. E' raggiungibile da Forza d'Agrò seguendo l'alveo della Fiumara d'Agrò, alla destra di un vallone, lungo cui, a pochi metri di altezza, risalendo una stradina si arriva in cima ad una piccola collina che fa quasi da contrafforte al sovrastante monte S. Elia.
Su tale collina, accanto ad un grande fabbricato ormai adibito a casa colonica e già costituente il Monastero dei S.S. Pietro e Paolo d'Agrò, si elevano verso il cielo due cupole sporgenti dalla terrazza merlata di una costruzione che colpisce per l'intrecciarsi dei suoi archi formati da mattoni e pietre nere vulcaniche ed arenarie.
Lo si può raggiungere anche percorrendo la strada provinciale n. 19 che da Santa Teresa di Riva porta a Casalvecchio Siculo. Superato il centro di Casalvecchio, e seguendo le indicazioni, ci si immette nella strada comunale che porta direttamente all'Abbazia. Storia
La chiesa originaria risaliva presumibilmente all'incirca al 560 . La decorazione laterizia di questo tempio ricorda, infatti, le costruzioni romaniche dal IV al V secolo che in Sicilia compaiono finanche al sec. XIII. Fu in seguito completamente distrutta dagli arabi e quindi ricostruita nel 1117.
Tale data è certa in quanto è stata dedotta da un "Atto di Donazione" di Ruggero II, datato 1116 scritto in lingua greca , conservato nel Codice Vaticano 8201, e tradotto in latino da Costantino Lascaris nel 1478. Da tale Atto di donazione si deduce che il conte Ruggero II in viaggio da Messina a Palermo fa una sosta in scala S. Alexii e cioè al castello di Sant'Alessio Siculo. In tale circostanza viene avvicinato dal monaco basiliano Gerasimo, il quale chiede al sovrano la facoltà e le risorse per riedificare (erigendi et readificandi) il monastero sito in fluvio Agrilea. La richiesta venne prontamente accolta e il monaco Gerasimo di San Pietro e Paolo si adoperò immediatamente a far erigere il tempio. Dal diploma di donazione si evince inoltre che il monastero fu dotato di alcuni redditi fissi : estesi campi di querce, di pascoli, alberi da frutto. Gli fu addirittura concessa la completa proprietà di un intero villaggio il Vicum Agrillae (l'attuale Forza d'Agrò) con assoluto potere da parte dei monaci su ogni oggetto o abitante di tale villaggio.
In particolare era obbligo agli abitanti di detto villaggio di portare "due galline al monastero nelle feste di Natale e di Pasqua nonchè la decima sulle capre e sui porci". Si disponeva che il monastero fosse fornito ogni anno di otto barili di tonnina della tonnara di Oliveri e che ogni merce diretta al monastero fosse libera da ogni gravame di tasse.
Era inoltre concesso all'Abate del Monastero il diritto del foro e cioè quello "di giudicare e di condannare, e la potestà sopra di quelli che, colti in delitti, potevano essere legati e flagellati e rimanere con i ceppi ai piedi, riservando la pena per l'omicidio alla Curia Regale". Per tali pene l'Abbazia pagava la locazione del carcere sito in Casalvecchio ( "carcerem in Casali Veteri") Con tali poteri si equiparava quindi la figura dell'Abate del Monastero dei Ss Pietro e Paolo a quello di un barone normanno del tempo.
La chiesa molto probabilmente subì dei gravi danni nel 1169 a causa del fortissimo terremoto che quel anno squasso tutta la Sicilia orientale. Fu quindi ristrutturata e rinnovata nel 1172 dall'architetto (capomastro)
Gherardo il Franco come si può dedurre dall'iscrizione in greco antico posta sull'architrave della porta d'ingresso: Fu ricostruito questo tempio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo da Teostericto categumeno tauromenita a proprie spese. Si ricordi di lui il Signore. Nell'anno 6680. Il capomastro Gherardo il Franco.
L'anno 6680 corrisponde nella cronologia greco- bizantina appunto al 1172 in quanto gli anni si computavano dall'origine del mondo che , per i greco- bizantini, risaliva a 5508 prima di Cristo, quindi l'anno 6680 dell'epigrafe corrisponde perciò al 1172 d.C. ( 6680 -5508 = 1172). Da quel restauro la chiesa non subì altre modifiche ed è giunta a noi praticamente intatta, al contrario del circostante Monastero di cui rimangono solo pochi resti e qualche edificio recentemente oggetto di un lavoro di restauro.
La Chiesa dei S.S. Pietro e Paolo d'Agrò, assieme a quelle del circondario di Forza d'Agrò, era agli ordini dell'Archimandrita di Messina.Nel tempio dedicato ai due S.S. Apostoli, i monaci basiliani hanno esercitato per otto secoli i propri riti religiosi in lingua greca.
Oltre ai due Abati su citati Gerasimo e Teostericto, si conoscono i nomi di altri 26 Abati che si sono succeduti nel corso dei secoli, fra i quali l'Abate Fra Simone Blundo, palermitano e il successore un certo Abate Fra Bessarione, greco, nel 1449 che ha diritto di voto nel parlamento siciliano e che fu nominato Cardinale da Nicolò V. L'ultimo Abate Nicolò Judice, fu nominato Cardinale da Benedetto XIII l'11 giugno 1725).Il Monastero della vallata di Agrò fu un centro notevole di vita spirituale, sociale ed economica. Su uno spuntone roccioso a ridosso della sponda sinistra del Fiume d'Agrò, l'Abbazia si estendeva e si esaltava col suo chiostro, di cui rimane ancora traccia nelle sei grande arcate a tutto sesto di mattoni rossi, e le camere del primo piano sorrette da solai con travi e mensole riccamente scolpite.
L'ampio territorio che controllava era molto ricco di varie colture e allevamenti ed era dotato di vari mulini per la produzione di farine e derivati. Abbondava la produzione di vino e olio. Di tali ricchezze prodotte dal Monastero ne beneficiava anche il paese di Casalvecchio Siculo ("Casale Vetus") che viveva gravitando intorno alle attività del monastero stesso. Nel corso dei vari secoli il Monastero dei SS Pietro e Paolo d'Agrò e la chiesa di S. Onofrio di Casalvecchio svolsero il ministero pastorale in unità d'intenti con la "Gran Corte Archimandritale di Messina" la quale concedeva all'Abate del "venerabile Monastero dell'Abatia dei SS. Pietro e Paolo d'Agrò, su richiesta della Matrice dell'Università di Casalvecchio sotto il titolo di S. Onofrio, di poter condurre processionalmente la Reliquia di detto S. Onofrio…in una delle due processioni…." ( Liber actorum, 1705, Archivio della "Gran Corte Archimandritale di Messina").
Dai registri del 1328 si apprende della presenza di sette monaci e di dieci nel 1336.
Dopo secoli di permanenza nel monastero i frati furono costretti a richiedere il trasferimento ad altra sede. Infatti in quel luogo l'aria era diventata insalubre e quasi irrespirabile a causa dell'acqua imputridita del fiume Agrò proveniente dalle coltivazioni di lino che lungo in fiume era massicciamente ed intensamente coltivato.
La richiesta di trasferimento fu accolta dall'Archimandrita di Messina e dal re Ferdinando IV e la sede Abbaziale del Monastero dei SS Pietro e Paolo fu trasferita a Messina nel 1794.
Una lapide, posta in cima al portone principale della nuova residenza sita nell'attuale via 1° Settembre n. 85, un tempo parte della sede arcivescovile ed oggi un comune palazzo, ricorda l'avvenimento. In verità, non si capisce se il motivo vero del trasferimento sia legato all'insalubrità dell'aria ed al terreno franoso, come riportato nella lapide, o piuttosto al desiderio di inurbarsi.
In seguito la chiesa venne praticamente abbandonata e per molti anni servì addirittura da deposito per attrezzature contadine.
Tale stato di totale abbandono ed incuria durò fino agli anni '60 del secolo scorso, visitata solamente da studiosi dell'architettura medievale sia italiani che stranieri. Solo negli anni '60 fu ripulita , fu oggetto di varie campagne di restauro conservativo, riaperta al culto, e alle visite turistiche.
è stata oggetto di vari studi da parte di vari critici e storici dell'arte fra i quali Stefano Bottari, Pietro Lojacono, E.H Freshfield, Antonio Salinas, Ernesto Basile, Enrico Calandra.
La recente scoperta a Scifì di alcuni resti archeologici, che si fanno risalire all'epoca romano-bizantina, ha fatto sostenere l'ipotesi di un Tempio antico preesistente sulla riva destra del torrente d'Agrò. Una tremenda alluvione, causata da forti e continui nubifragi abbattutisi nella zona, avrebbe causato gli smottamenti e le frane che hanno investito, distruggendolo, l'originario edificio religioso. Descrizione architettonica
Ha l'aspetto di una chiesa fortificata con il classico orientamento della parte absidale ad est. Il suo aspetto ed il coronamento di merli indicano senza dubbio la funzione di fortezza che ha dovuto sostenere nei vari secoli. Ha caratteristiche molto simili a quelle che si possono riscontrare nelle grandi cattedrali coeve di Cefalù e Monreale.
Architettonicamente si può certamente definire come una sintesi dello stile bizantino, arabo e normanno.
Gherardo il Franco oltre ad aver curato la policromia della massa muraria, vi aggiunge le lesene, caratteristica delle decorazioni degli edifici normanni, ereditato dagli Arabi. La religione islamica, infatti, condannava la rappresentazione di figure animate temendo che si ricadesse nell'idolatria ed ammetteva invece decorazioni costituite da fasce, listelli, tralci di ogni maniera che, tra l'altro, davano luogo a combinazioni infinitamente variate e conferivano vivacità alla struttura. Così, ciò che rende particolarmente fantasioso l'esterno del tempio è l'andamento degli archi intrecciati che ininterrottamente si accavallano l'un l'altro per tutta la superficie perimetrale della chiesa.
La grande abside, a base rettangolare, è rivolta ad oriente, fra due altre più piccole a base circolare, e si innalza come una torre ornata da quattro grossi merli guelfi. L'abside è percorsa da quattro altissime lesene che formano tre rincassi chiusi da archi a sesto acuto. In ognuna delle tre absidi si apre una finestra anch'essa a sesto acuto. I muri perimetrali della chiesa sono costituiti da mattoni di terracotta posti di taglio e separati da un grosso strato di calce che cementa i mattoni fra di loro e ne attenua nello stesso tempo il colore rosso. Tale parte muraria è resa più vivace da altri mattoni posti a spina di pesce, da conci di lava o di pomice nera e da altri di calcare bianco o di marmo rosso delle cave della vicina Taormina.
L'ingresso del tempio è rivolto a ponente ed è caratteristico per la sua vivacissima policromia. L'archivolto è a sesto acuto ed è costituito da due semicerchi realizzati mediante blocchi di pietra bianca, di pietra nera e di pietra rossa alternati. Nel timpano, tra l'
architrave e l'archivolto, risalta una croce greca, in rosso e bianco su fondo rosso, inscritta in un cerchio. L'insieme di tutte queste tinte, rosso, bianco e nero, per niente scolorite dalla patina dei secoli, realizza una policromia veramente interessante. Stile bizantino
- la decorazione delle facciate con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate
- struttura a mattoni con ornati a spina-pesce e a zig-zag e anche nella decorazione della facciata con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate;
- la particolare policromia delle membrature architettoniche;
- la sagoma dei pulvini insistenti su capitelli a paniere;
- la croce di tipo bizantino incisa nella lunetta sulla porta d'ingresso. Stile Arabo
- le caratteristiche archeggiature sovrapposte che sorreggono la cupola minore del presbiterio; tale cupola si sviluppa con un tamburo ottagonale con otto finestre;
- la forma terminale curva delle merlature;
- la forma delle cupole e il terminale chiaramente di stile arabo delle stesse; Stile Normanno
- la planimetria a tre navate con l'ingresso fiancheggiato da due torri molto simile alle grandi cattedrali normanne di Cefalù e Monreale;
- il portico posto fra le due torri dell'ingresso.
Indubbiamente l'aspetto che colpisce di più ad una prima osservazione è la spettacolare policromia delle facciate resa possibile dal sapiente alternarsi di mattoni in cotto, pietre laviche (di provenienza etnea), pietra serena locale. Lo stesso Prof. Stefano Bottari così la descrive: "La bizzarra policromia, ottenuta per mezzo del mattone, delle lava e della pietra bianca, adoperati per la costruzione ed intrecciati armoniosamente, acquista allo snello edificio una fisionomia veramente suggestiva e pittoresca….".
L'interno della chiesa, che è a croce latina con tre navate e tre absidi e misura 11,30 x 21,25 metri, al contrario del suo esterno è caratterizzato da una assoluta austerità. Non è presente alcuna decorazione o affresco e i muri sono completamente spogli : si può ammirare solamente il gioco dei mattoni e delle pietre di costruzione. Non sappiamo se in origine fossero presenti decorazioni o altro però è difficile pensare che nel corso dei secoli non fossero stati presenti degli affreschi.
Le quattro colonne che sostengono le sei arcate del tempio, sono di granito ed hanno un diametro alquanto grande in rapporto alla loro altezza. La chiesa ha due cupole: la più grande, sulla navata centrale, si erge su un tamburo ottagonale; l'altra, in asse con la prima, della quale è pure simile, si trova al centro del transetto. Entrambe le cupole internamente sono intonacate di bianco ed esternamente di rosso.
Nel corso del XVI secolo il Tempio dei S.S. Pietro e Paolo ha subito un buon restauro, non abbastanza comunque da modificare le semplici e delicate linee architettoniche. In particolare furono pitturate di bianco le pareti, "imbrattate" le cupolette e cambiato il soffitto.