Ove son or le meraviglie tue O regno di Sicilia? Ove son quelle Chiare memorie, onde potevi altrui Mostrar per segni le grandezze antiche?
(Dal Fazello - Storia di Sicilia, deca I,lib. VI,cap.I)
Piazza dei Martiri o Piano della Statua
Il Duca di Camastra, giunto a Catania nel pomeriggio del 12 febbraio 1693, esattamente un mese e un giorno dopo l'evento fatale, si trovò dinanzi ad un paesaggio allucinante: la città distrutta, migliaia di persone senza tetto, senza pane, senza speranza.
Dotato di polso ferreo e di ferrea volontà, munito dei pieni poteri conferitigli da Uzeda, il coraggioso magistrato, a cui non mancavano idee in fatto di urbanistica, si rimboccò le maniche e si mise subito a lavorare.
Per bonificare l'ambiente cominciò col togliere di mezzo due grossi ostacoli: i ladri che rovistavano ancora fra le macerie e i fabbricati pericolanti che minacciavano d'intralciare l'attuazione del suo piano regolatore. I ladri colti sul fatto furono impiccati e i fabbricati fatiscenti demoliti (a proposito di questi ultimi, scaturì poi il detto popolare: Ciò che il terremoto risparmiò, Camastra distrusse).
Trovatosi a dover operare sulla tabula rasa che gli si stendeva davanti, appuntò l'asta del suo ideale compasso nel centro dell'ex platea magna, (dove a tamburo battente sarebbero stati ricostruiti la Cattedrale, il Seminario e il Palazzo Senatorio) e da quel punto nevralgico tracciò con mano sicura quattro lunghe linee rette fra di esse ortogonali, le quattro strade costituenti la spina dorsale sulla quale, mese dopo l'altro, si formerà il tessuto connettivo della ricostruenda città.
L'odierno nostro itinerario ci porta a considerare il coronamento di una di queste strade, di quella che, tagliando la città alla base, da ponente a levante, si sarebbe poi conclusa verso il mare nel piano della Statua (oggi piazza dei Martiri).
Conviene annotare, in primo luogo, che al tempo del Camastra la strada s'interrompeva all'altezza di piazza Cutelli, e lì si fermava.
Nel giro dei successivi cinquant'anni, alcune cose cambiarono in quella zona.
Il tracciato viario fu prolungato fino al mare; nuove costruzioni si elevarono ai limiti dello spiazzale (tra queste, notevole il palazzo Reburbone, poi Gravina); il quartiere della Civita si dilatò a levante, scavalcando la porta di Ferro e il convento di San Francesco di Paola; lo spiazzale stesso venne ingrandito, così da poter degnamente accogliere una marmorea statua di Sant'Agata che i catanesi vollero, in quello scorcio di secolo, per saldare un debito di gratitudine con la loro Protettrice.
I fatti che determinarono l'atto di omaggio sono noti. Li riassumiamo in breve.
Nel 1743 la peste infierì nella città di Messina seminando, per cinque lunghissimi mesi, morte e desolazione fra quella gente. I catanesi, provati da non troppo remote sventure, paventarono il contagio, tanto più che il morbo s'era preannunciato anche a Siracusa.
Presi fra due fuochi, cosa potevano fare per uscirne illesi? Tapparsi in casa o fuggire? Affidarsi alla cintura sanitaria imposta dal regio governo? No. Una sola cosa c'era, piuttosto, da fare: rivolgersi a Sant'Agata. A Sant'Agata si rivolsero; e Sant'Agata li salvò dalla peste.
Riconoscenti per lo scampato pericolo, vollero un monumento che, onorando la Santa, ricordasse ai posteri il memorabile evento. Così, nel 1744, la statua (che rappresenta Agata nell'atto di calpestare l'idra velenosa della pestilenza, ed è opera del palermitano Michele Orlando) scolpita in marmo di Carrara, venne alzata sulla sommità d'una colonna romana proveniente dall'Anfiteatro, e collocata nel centro dello spiazzo che, da quel momento, fu chiamato piano della Statua.
Malgrado così nobile decorazione, nonostante l'impegno svolto dal patrizio Giovanni Rosso di Cerami (cui si devono l'ingrandimento della città e il primo progetto d'una passeggiata a mare in quella zona), malgrado il fervore religioso e le buone intenzioni del Decurionato, il piano della Statua per molti anni non fu che una polverosa spianata con la superba veduta dell'Etna sullo sfondo libero di tramontana, e nient'altro.
Nel 1806, un grosso avvenimento lo toccò da vicino.
Un ospite illustre prese alloggio nel palazzo del principe Reburdone: Ferdinando IV, terzo re di Sicilia.
Dalle cronache del tempo risulta che, nei quattro giorni trascorsi .a Catania, il re non si stancò di ammirare le bellezze della città, delle sue strade, delle sue piazze. In particolarè egli elogiò la imponente strada dritta dal Borgo a piazza Duomo; la strada Ferdinanda, coronata a occidente dalla Porta dell'Ittar; la strada del Corso, riccamente addobbata.
Del piano della Statua nemmeno un cenno. Come mai? Possibile che l'augusto ospite, che pure dormiva accanto, guardando il mare non lo avesse notato? O si trattò di presagio di futuri eventi?
Sta di fatto che trentuno anni dopo l'avvenimento ricordato, i patrioti catanesi che si erano ribellati alla tirannide borbonica furono in quel luogo fucilati.
"Là, suIl'ararida spiaggia, in quella piazza che doveva poi ricordare ai posteri il loro martirio, volto il viso verso l'immensa distesa del mare, i loro occhi fissarono per l'ultima volta l'azzurro del cielo ... ".
Cosi, in faccia al cielo settembrino, ai piedi di Agata, morirono Barbagallo Pittà e gli altri i cui nomi scolpiti in prosieguo di tempo nel marmo d'una lapide, furono cementati - guarda caso - su una parete di quel palazzo che aveva ospitato il terzo re di Sicilia.
Ribattezzata Piazza dei Martiri e tuttavia trascurata dalle civiche amministrazioni succedutesi nell'ultimo Ottocento, essa servì soprattutto ai pescatori della vicina Civita che vi trovarono sole e spazio per stendere e asciugare le loro reti.
Poi, qualcuno prese a cuore le sorti di questa trascurata piazza, cosi vicina al mare alla stazione ferroviaria al porto; una piazza decorata da una colonna romana, dalla Statua per antonomasia, dal sangue dei martiri del 1837; una pIazza spazIosa, invitante, di felice squadratura.
Bitumato il fondo, sistemata la base della colonna, piantati tutt'intorno una collana di palmizi, costruiti dei sedili, delle aiuole e persino un grande albergo, essa si abbellì per la prima volta dopo un secolo e mezzo di abbandono.
E tuttavia, la toeletta non poteva dirsi completa. Le mancava l'ornamento più necessario e prestigioso: la passeggiata a mare.
Era l'inizio del ventesimo secolo. Giuseppe De Felice, pro-sindaco del tempo, trovò modo di occuparsi anche del piano della Statua.
Superate non poche difficoltà (remore di carattere finanziario, resistenze di privati, ostilità di politici), egli potè realizzare l'ambìta opera la quale, col passare del tempo, rivelò i suoi limiti.
L'espandersi dei vicini binari della ferrovia andò sempre più allontanandola dal mare; e i catanesi, che non avevano mai dimostrato inclinazione per quel passeggio, non seppero fare di meglio che voltarle le spalle.
La mai abbastanza compianta Carmelina Naselli scriveva agli inizi degli anni Trenta: " ... io dico che di passeggiate i catanesi ne facciamo ancora molte, e tuttavia disertiamo volentieri l'ampia terrazza della piazza dei Martiri la quale, a parte ogni altra considerazione, così alta com'è e isolata dal traffico, rimane uno dei posti più tranquilli e suggestivi ...
Davanti, a perdita d'occhio, le acque più azzurre, dopo quelle di Capri, che offrano i mari d'Italia; a sinistra la selvaggia bellezza della scogliera prolungantesi lontano, più oltre Acitrezza; a destra la dorata distesa della Plaja; alle spalle l'Etna, maestosa nel cobalto del cielo, elemento di bellezza, di ricchezza, se pur anche di timori ... " .
Verissimo. Ma, a dispetto di tutto questo, la bella terrazza fu smaccatamente snobbata dai catanesi. Questione di fortuna; di quella fortuna che la piazza non aveva avuto, evidentemente.
da Catania com'era, di Lucio Sciacca - Vito Cavallotto Editore